La nostra vigna è di 10 ettari e mezzo: è un unico corpo a ridosso di Napoli e sta ai confini del Bosco degli Astroni, un’oasi del WWF già terreno di caccia dei Borboni. In questa terra antica, ho recuperato un vecchio vigneto dei miei avi, una vigna di inizio Ottocento.
La coltiviamo con vecchi metodi di allevamento, quelli usati dagli uomini di migliaia di anni fa; solo per le vigne di nuovo impianto trent’anni fa ho introdotto delle tecniche più moderne. Il nostro vino è prodotto con pratiche agronomiche e tecniche che sono il frutto della saggezza contadina, che si tramanda di padre in figlio ma che oggi, qui, sono rimasto praticamente l’unico a mantenere vive. È per questo che la nostra vigna crescerà, perché ho accettato di raccogliere la sfida dei tempi e di acquisire un campo accanto al nostro che rischiava di essere dismesso.
Stiamo sul vulcano più pericoloso al mondo (non di rado partono dal terreno spruzzi di zolfo che arrivano fino in vigna). Il terreno è molto sciolto e poco coeso, le pendenze sono forti e la terra smotterebbe se non avessimo costruito i terrazzamenti, fatti a suon di zappa e con un grosso lavoro idraulico, e se non lavorassimo continuamente per conservarli.
Alcuni dei nostri vini sono prodotti in pochissime bottiglie, come la Vigna delle Volpi: 600 l'anno. E oltre alle DOC piedirosso e falanghina, abbiamo ripristinato delle altre uve, tipiche e antichissime, di cui abbiamo piante vecchissime. Nella nostra Sabbia Vulcanica, ad esempio, ho voluto recuperare la beva dei miei avi, che non consumavano in purezza né falanghina né piedirosso, ma li diluivano con altre uve. Assieme alla falanghina (85%) mettiamo anche catalanesca, moscato, caprettone, biancolella e gelsomina. Quest’ultima, in particolare, è un’uva ormai scomparsa e noi siamo gli ultimi a detenerne alcuni cippi.
Raffaele Moccia